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La mostra “I MACCHIAIOLI”, a Palazzo Blu di Pisa, dall’8 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023 – prodotta e organizzata da Fondazione Palazzo Blu e MondoMostre, con il contributo di Fondazione Pisa, a cura di Francesca Dini, storica dell’arte ed esperta tra le più autorevoli di questo movimento – ripercorre l’entusiasmante evoluzione e insieme rivoluzione dei Macchiaioli, che hanno dato vita a una delle più originali avanguardie nell’Europa della seconda metà del XIX secolo. Si tratta infatti di una retrospettiva di oltre 130 opere, per lo più capolavori provenienti da collezioni private, solitamente inaccessibili, e da importanti istituzioni museali come le Gallerie degli Uffizi, il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, la Galleria d’arte moderna di Genova e la Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma.
Questo importante movimento pittorico è diventato popolare, arrivando a un pubblico più vasto, oltre cinquant’anni fa grazie all’ormai storica mostra di Forte Belvedere a Firenze. Sull’arte dei macchiaioli molto si è detto e rappresentato, senza mai però riuscire a restituire appieno quella visibilità internazionale che le spetta. E questo soprattutto perché la competizione con l’Impressionismo francese, impostata come ineludibile dalla critica sin dai tempi di Roberto Longhi, ha fin qui impedito una lettura completa e autonoma della vicenda dei Macchiaioli.
Oggi più che mai, cadute le visioni nazionaliste a favore di uno sguardo europeista e internazionale, si è più propensi a stemperare la concezione franco-centrica della storia della pittura europea del XIX secolo e, senza sminuire la portata universale del messaggio impressionista, a evidenziare con maggiore oggettività i nessi vitali del dialogo culturale tra i popoli che hanno contribuito all’evoluzione della civiltà europea.
In questo contesto la vicenda dei Macchiaioli assume una rilevanza ancora più interessante, così come la Toscana, terra di elezione per loro esperienza artistica. Questi pittori appaiono dunque per ciò che sono effettivamente stati, ovvero la chiave di un dialogo aperto, propositivo, onesto e audace con le più importanti comunità artistiche dell’Europa del tempo.
Il termine “Macchiaioli” fu coniato nel 1862 da un recensore della Gazzetta del Popolo, che così definì quei pittori che intorno al 1855 avevano dato origine a un rinnovamento in chiave antiaccademica della pittura italiana in senso realista. L’accezione ovviamente era dispregiativa e giocava su un particolare doppio senso: darsi alla macchia infatti, significa agire furtivamente, illegalmente.
Questa rivoluzione, apparentemente originalissima, aveva invece origini profonde nell’arte figurativa della Penisola. Lo stesso termine “macchia” era stato utilizzato da Giorgio Vasari a proposito delle opere mature di Tiziano, che erano “condotte di colpi, tirate via di grosso, e con macchie di maniera, che da presso non si possono vedere, e di lontano appariscono perfette”.
Partendo dall’elaborazione dei principi del realismo europeo formulati da Gustave Courbet e da Pierre-Joseph Proudhon e perfezionando lo strumento espressivo della “macchia” desunto dall’esempio dei cinquecentisti veneziani, i Macchiaioli si avventurano sulla via della luce, dipingendo la realtà loro contemporanea, nella semplicità degli scenari naturali di cui avevano diretta esperienza – a Venezia, La Spezia, Castiglioncello, Piagentina, per citare solo alcuni luoghi simboli del movimento – nella pregnanza dei valori etici e morali di un’epoca gloriosa, quella Risorgimentale, che permea l’alta tenuta formale dei loro capolavori.
L’esposizione a Palazzo Blu, articolata in 11 sezioni, racconta dunque l’eccitante avventura di un gruppo di giovani pittori progressisti, toscani e non, che – desiderosi di prendere le distanze dall’istituzione accademica nella quale si sono formati, sotto l’influenza di importanti maestri del Romanticismo come Giuseppe Bezzuoli e Francesco Hayez – giungono in breve tempo a scrivere una delle più poetiche e audaci pagine della storia dell’arte non solo italiana.
Ed è proprio per via dei valori universali che la sottendono che l’arte dei Macchiaioli risulta così attuale, affascinando con la pienezza formale e poetica di straordinari capolavori – dalle Cucitrici di camice rosse di Borrani a Il canto di uno stornello di Lega, alla Battaglia di Magenta di Fattori – indelebilmente impressi nella memoria collettiva. Lo sguardo intimo sulla realtà a loro contemporanea, la visione antieroica e profondamente umana che i Macchiaioli ebbero del Risorgimento hanno del resto incantato anche il mondo del Cinema, da Luchino Visconti a Martin Scorsese.
La mostra di Palazzo Blu raccoglie le opere “chiave” di questo percorso allo scopo di cadenzare i diversi momenti della ricerca dei macchiaioli, il loro confrontarsi con altri artisti e con le diverse scuole pittoriche europee; i loro smarrimenti, la capacità di mettersi collettivamente in discussione e di sterzare, se necessario, il timone per proseguire sulla strada del progresso e della modernità senza abbandonare mai la via maestra della luce. Il pubblico dei visitatori troverà a Palazzo Blu le risposte alle domande più ricorrenti: perché i Macchiaioli sono nati in Toscana? Possono essi ritenersi i pittori del Risorgimento? Perché sono considerati un’avanguardia europea?
Il racconto prende le mosse, nella prima sezione, dal fiorentino Caffè Michelangelo, nel quale approdano nel 1855 i toscani Telemaco Signorini, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, Giovanni Fattori, Adriano Cecioni, Cristiano Banti, Serafino De Tivoli, ai quali si uniscono il napoletano Giuseppe Abbati, i veneti Vincenzo Cabianca e Federico Zandomeneghi, il ferrarese Giovanni Boldini, il romagnolo Silvestro Lega, il pesarese Vito D’Ancona, il romano Nino Costa. Tra i loro sostenitori ci sono il poeta Giosuè Carducci, il critico Diego Martelli, l’ingegnere e uomo di scienza Gustavo Uzielli. Questi artisti che si definiscono “progressisti” contestano l’accademia di belle arti come sistema e difendono la libertà di espressione. Ecco perché il Caffè Michelangiolo da subito appare loro il luogo ideale per crescere e per svincolarsi dalle “pedanterie” accademiche. Il loro obiettivo è quello di arrivare ad esprimere il proprio sentimento attuale di giovani uomini animati da profonde idealità patriottiche e artistiche attraverso forme d’arte più moderne e condivise. Vogliono confrontarsi con realtà diverse da quella italiana e accogliere quanti, anche solo di passaggio in Toscana, possano apportare un qualche stimolo, tra questi Edgar Degas e Gustave Moreau, Marcellin Desboutin e lo scrittore Georges Lafenestre, Auguste Gendron (allievo di Delaroche), l’americano Elihu Vedder.
L’esposizione prosegue attraverso i cambiamenti di scenari (sezione 2), a partire dall’Esposizione Universale di Parigi del 1855 che sancisce il trionfo della moderna pittura di paesaggio francese, e cambia anche lo sguardo sul paesaggio di alcuni pittori, capeggiati da De Tivoli e da Carlo Markò junior. “Il paesaggio è la vittoria dell’arte moderna” affermano Edmond e Jules de Goncourt nel loro articolo sull’Esposizione. Di ritorno da Parigi De Tivoli inizia dedicarsi allo studio del vero, ottenendo mirabili effetti di naturalezza e di ariosità atmosferica, come in La questua.
Lo sguardo cambia anche sulla realtà contemporanea (sezione 3), e anche pittori di figura come il veronese Cabianca si trovano a osservare con occhi nuovi la società contemporanea passando dal timido realismo delle scene d’interno, ad un’opera come L’abbandonata, in cui audacemente Cabianca coglie lo stato emotivo della protagonista con insolita determinazione.
In mostra anche il tema della Seconda Guerra d’Indipendenza (sezione 4) che provoca nel percorso dei progressisti toscani l’occasione per riflettere sul particolare rapporto che li lega all’epopea risorgimentale. Nel frattempo, incoraggiato dal momento storico, “si converte alla macchia” anche Giovanni Fattori che nella Battaglia di Magenta, dipinge un grande affresco corale in cui la vittoria italiana decisiva per le sorti della guerra – con la liberazione di Milano – diventa un evento umanitario.
La quinta sezione è dedicata al dipinto Il mattino di Cabianca,eccezionalmentea Pisa per la prima volta dopo 160 anni, esposto con successo alla Promotrice di Torino nel 1861. La mostra prosegue con il racconto del successo che i Macchiaioli ebbero dopo l’esposizione torinese, gli anni di affermazione della loro arte(sezione 6). In questo momento nascono straordinari capolavori come Mietitura del grano nelle montagne di San Marcello di Borrani, Pastura in montagna e Tetti al sole di Sernesi, Contadina nel bosco, di Fattori. Il gruppo è ormai coeso e forte grazie a un progetto comune, ovvero contribuire alla nascita di un’arte nazionale, allineata con le più avanzate manifestazioni della pittura europea.
Nelle sezioni successive si attraversano i luoghi e le atmosfere suggestive della Liguria, dell’alta Toscana e di Castiglioncello, località sino a quel momento sconosciuta, dove i Macchiaioli approdano a una essenzialità espressiva che trova nella natura incontaminata di quel luogo un fondamentale corrispettivo poetico. Da qui alcuni grandi opere come le smaltate predelle di Borrani – Casa e marina a Castiglioncello, Case di Pannocchio – le mirabili sintesi di Fattori, le argentee visioni di Abbati – Marina a Castiglioncello, Casa sul botro, Bimbi a Castiglioncello – le solari profondità di Sernesi – Marina a Castiglioncello. La produzione fattoriana di questi anni contempera felicemente due intonazioni diverse, quella elegiaca di capolavori come La raccolta del fieno in Maremma, Le Macchiaiole, Rappezzatori di reti a Castiglioncello e Criniere al vento e la prodigiosa sintesi di gioielli come Bifolco e buoi, Ritratto di Valerio Biondi e Diego Martelli a Castiglioncello, Lega che dipinge sugli scogli, piccole tavole nelle quali la realtà è trasposta in puri ed essenziali valori pittorici.
Altro luogo importante di aggregazione dei pittori è la campagna fiorentina di Piagentina, dove l’intonazione luminosa è meno selvaggia, più incline ad assecondare l’atmosfera quieta e la domestica intimità. Lega è il cantore della affettuosa e serena atmosfera di Piagentina: nei capolavori realizzati dal modiglianese in questi anni, da La visita a La visita in villa, da Lettura romantica a L’educazione al lavoro si rinviene quell’unità di ispirazione che conferisce all’operato del pittore la continuità melodica di uno stesso canto elegiaco.
Sul finire del 1866 il Caffè Michelangelo chiude i battenti e nel gennaio del 1867 esce il primo numero del Gazzettino delle arti del disegno, fondato e diretto da Diego Martelli (sezione 10): il critico crea la rivista quale luogo “mediatico”, in sostituzione del luogo fisico. Lo scopo è quello di indagare personalità e idee non esclusivamente italiane e aprire un dibattito di carattere europeo. Un tentativo, quello del Gazzettino, che – affidato alle sole forze finanziare del Martelli – è destinato tuttavia a breve vita. In questa sezione è possibile ammirare un inedito confronto tra il Ritratto della Principessa Margherita di Savoia di Michele Gordigiani “aulico” e moderno al tempo stesso e il Ritratto di signora russa di Giovanni Boldini più “formale”.
Con il 1870, l’attività di gruppo dei Macchiaioli viene meno. Le scomparse di Sernesi e di Abbati, il trasferimento a Parigi di De Tivoli, Boldini, De Nittis, Zandomeneghi, D’Ancona causano un allentamento nella tenuta del movimento; il quale – di contro – si arricchisce di nuove leve, i macchiaioli di seconda generazione, sensibili alle istanze del Naturalismo internazionale. Alcuni di loro, essendo benestanti come i Gioli e i Tommasi, da allievi divengono talvolta anche mecenati e protettori degli anziani maestri. L’ultima sezione affronta dunque l’avvio verso il Novecento. Qui troviamo alcuni dipinti di Lega che produce tra cui La Lezione e Una madre, opere di grande respiro e urbanità, caratterizzate da una rara perfezione stilistica e da una straordinaria forza inventiva. E infine opere di Telemaco Signorini di ritorno da lunghi viaggi, e Fattori che dal disincanto, per il venir meno dei valori risorgimentali che hanno improntato l’esistenza della sua generazione, passa alla desolazione nel Pro patria mori, concepito all’indomani della disfatta italiana a Dogali. I valori risorgimentali sono ormai dimenticati, come quel soldato morto e abbandonato nella landa desolata di una terra straniera.