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Cos’è la realtà? Il dizionario definisce la realtà come la qualità e
la condizione di ciò che è reale, che esiste in sé e per sé o
effettivamente e concretamente. Questo potrebbe significare che per
descrivere interamente e precipuamente un fenomeno sia sufficiente
osservarlo e accertarne l’esistenza sulla base della propria
esperienza, senza bisogno di mettere in discussione l’interpretazione
che ne viene data. Il problema è che, in molti casi, la descrizione
della realtà non è reale, è un’opinione, e dipende dall’osservatore,
dal suo senso critico e dalla sua capacità di analisi. In questo
scenario, ognuno costruisce la propria realtà, facendo ricorso alla
consapevolezza e alle conoscenze possedute. A chi verrebbe in mente di
sostenere che la matematica è un’opinione? Se scrivessi che, sulla
base della mia esperienza, per due punti passano tre rette, diverrei
poco credibile e probabilmente molti lettori abbandonerebbero la
lettura, reputandomi un incompetente: giustamente, peraltro. La
questione è proprio in questi termini: la realtà è qualcosa che esiste
o è più semplicemente un punto di vista? La scienza moderna,
attraverso la teoria quantistica, prevede che una particella
subatomica possa essere descritta attraverso l’insieme degli stati che
è in grado di assumere e presume che, in mancanza di un’osservazione
diretta, gli stati possano sovrapporsi e verificarsi
contemporaneamente. Applicando per assurdo questa teoria al mondo
reale, si può azzardare un parallelismo: se un uomo è in grado di
correre e dormire, potenzialmente può correre e a dormire
contemporaneamente… a meno che un osservatore non “misuri” e registri
lo stato in cui si trovi l’uomo in un certo momento. Se questo
approccio, valido per la descrizione dei fenomeni subatomici, fosse
applicabile alla vita reale, sarebbe necessario mettere in dubbio il
concetto di realtà e chiedersi: gli oggetti che conosciamo sono reali
o assumono quello stato soltanto nel momento in cui li osserviamo? Il
sole, ad esempio, si trova esattamente in un certo punto o è là
soltanto quando viene osservato? Rispetto a questa domanda, mi sento
di rassicurare i lettori: il cosiddetto “realismo locale”, ovvero il
principio di azione e reazione applicato alla realtà quotidiana, è in
disaccordo con il teorema di Bell, quindi le ipotesi controintuitive
della meccanica quantistica non trovano riscontro nella quotidianità.
Come si fa, quindi, a descrivere la realtà che viviamo e a renderne
oggettiva la descrizione? Esistono realtà locali che possono essere
descritte attraverso leggi rigorose, per esempio la caduta di un
grave, e realtà locali più sfumate, la cui descrizione può essere
influenzata dal punto di vista e dalle interpretazioni personali.
(inserire Immagine 89)
Teoricamente, il metodo per descrivere un fenomeno è sempre lo stesso:
c’è la previsione teorica e ci sono l’osservazione, la misura, la
raccolta dei dati, l’analisi, il confronto e la diffusione dei
risultati attraverso i quali confermare o smentire la toeria. I fatti
recenti hanno dimostrato che, in mancanza di un metodo e di una teoria
scientifica “vera” da confermare (i due punti per i quali passa una e
una sola retta), i dati possono prestarsi a ogni tipo di
interpretazione. In poche parole, un set di dati, raccolti, analizzati
e interpretati in modo scorretto, può permettere a chiunque di
sostenere qualsiasi cosa, anche la più bizzarra: esattamente ciò che è
accaduto con l’epidemia, un fenomeno tutto sommato storicamente
conosciuto, che è stato affrontato con un metodo approssimativo e
inefficace. Gli addetti ai lavori, quelli silenziosi che non si fanno
intervistare dai media, manifestano continue perplessità rispetto alla
leggerezza con cui vengono prodotti, analizzati e diffusi i dati
riguardanti il coronavirus. Le mancanze sono tante, troppe. Fin
dall’inizio, è mancato un metodo scientifico vero e prorpio attraverso
cui affrontare il problema; è mancato, per esempio, un campione
statistico affidabile che desse la possibilità di effettuare una
rilevazione dei tamponi efficace e funzionale alla descrizione esatta
del fenomeno. Da un dato rilevato in modo scorretto non possono
derivare analisi corrette, questo è evidente. Statisticamente
parlando, non ci sono grosse alternative: per rilevare correttamente i
dati, si possono usare due metodologie: la rilevazione campionaria e
la rilevazione censuaria. O si scelgono con un certo criterio gli
elementi da misurare o si misurano tutti gli elementi esistenti. La
rilevazione “casuale”, attualmente, non è contemplata tra le tecniche
scientifiche di raccolta dei dati. Soprassedendo su questa gravissima
mancanza, c’è da dire che l’utilizzo dei dati raccolti con la tecnica
“casuale”, attraverso l’osservazione disorganizzata, ha prodotto
fortunosamente alcuni risultati: sappiamo per esempio che esistono un
virus e un fenomeno epidemico il cui andamento è descritto da una
certa curva. Sappiamo che il virus è più letale tra i soggetti di una
certa fascia di età, in alcuni territori nei quali esiste una precisa
distribuzione demografica, e che coesistono una popolazione
“probabilmente” fragile e una popolazione “probabilmente” meno
fragile. La fragilità, oltre ai fattori anagrafici, spesso è
influenzata dalla presenza di una o più patologie pregresse. Queste
evidenze, seppur faticosamente, e a colpi di insulti tra gli
epidemiologi superstar, sono emerse: finalmente si parla della
valutazione del rischio, dell’esposizione (in modo più accurato del
tormentone “la mascherina chirugica qualcosa fa”) e della probabilità
di sviluppare la malattia covid19. È abbastanza singolare che il
concetto di rischio, conosciuto da tempo e applicato in diversi
ambiti, dalla radioprotezione alle misure di sicurezza nei cantieri
edili, si sia palesato dopo molti mesi in cui è sono state prese
misure spesso contraddittorie e socialmente pericolose. Personalmente,
ho qualche riserva quando sento i rappresentanti dello Stato incolpare
i comportamenti dei cittadini, perché, teoricamente, i cittadini sono
lo Stato. In ogni caso, finalmente siamo arrivati a istituire delle
regioni “colorate”. Se un lettore attento potrebbe affermare che, con
il tempo avuto a disposizione, si sarebbero potuti disegnare dei
cluster territoriali più precisi e meno vasti, caratterizzati magari
dalle caratteristiche demografiche e sociali degli abitanti e dalla
densità abitativa locale, un lettore meno attento (e sui social ce ne
sono stati parecchi) potrebbe chiedersi perché si sia utilizzato il
colore giallo e non il verde: si tratta forse di un complotto della
lobby dei pastelli? No, forse, più semplicemente, come nel caso delle
allerte meteo, il colore verde viene associato a situazioni prive di
rischio… e attualmente non esistono zone a rischio zero.
(inserire immagine 101)
Vivere significa rischiare, questo è evidente. Anche le situazioni
più rassicuranti, come possono essere le attività condotte tra le mura
domestiche, espongono a un rischio più o meno alto. Le questioni su
cui varrebbe la pena soffermarsi a filosofeggiare, magari in un altro
articolo, riguardano la percezione degli individui rispetto al rischio
e l’abitudine al pericolo, oltre alla sua sottovalutazione o
sopravvalutazione. Per esempio, è molto rischioso sottoporsi a cure
ospedaliere (circa 50.000 decessi l’anno) o spostarsi con un qualche
mezzo di locomozione privato (circa 80.000 decessi l’anno), ma
l’abitudine al pericolo rispetto a questi temi e la sua
sottovalutazione sono talmente radicati nel tessuto culturale che
(quasi) a nessuno verrebbe in mente di avviare una campagna mediatica
contro gli spostamenti in motocicletta o di invocare un “lockdown”
automobilistico. Poiché il rischio è un concetto generale applicabile
a diverse realtà, è possibile ricondurlo facilmente anche ai fenomeni
epidemici. E la misura, seppur imprecisa, ha evidenziato un rischio
maggiore per alcuni individui più fragili di altri. Da una stima
spannometrica, che si può fare velocemente consultando il sito
http://dati.istat.it, emerge che la popolazione residente, per la
fascia di età che va dai 70 anni in su, è composta da oltre dieci
milioni di persone.Circa sette milioni, se si prendono in
considerazione gli ultrasettantacinquenni. Sappiamo che un sesto della
popolazione è a rischio e sulla base di questa evidenza è necessario
utilizzare i dati disponibili, per indicare ai decisori politici cosa
si può fare in termini sociali, economici e demografici, cercando
possibilmente di disegnare uno scenario futuro sostenibile. Per fare
questo, i dati demografici non sono sufficienti: è necessario
integrare diverse fonti, perché, come si dice spesso tra gli addetti
ai lavori, un dato solo è sempre in cattiva compagnia. I dati, quando
vengono associati ad altri tipi di dato, possono assumere significati
diversi e fornire chiavi di letture più efficaci. Sapere che gli over
70 sono più di dieci milioni è importante, ma sarebbe interessante
rispondere a una serie di domande alle quali, per il momento, non è
stata data una risposta chiara. Quanti (o in che percentuali) vivono
in famiglia? Quanti (o in che percentuali) nelle RSA? Quanti possono
usufruire di una rete di protezione familiare? Quanti hanno bisogno di
assistenza sociale? In che condizioni di salute si trovano? Quante e
quali patologie pregresse hanno? In che condizioni economiche si
trovano? Quali sono le città in cui si concentrano? E nei piccoli
centri? In quali fasce di età si distribuiscono le diverse patologie?
Quali sono i cluster territoriali delle fragilità da proteggere?
Questo relativamente all’emergenza, poi ci sono le questioni relative
alle ricadute economiche e sociali sulle quali non è stata avviata una
riflessione seria e non ci sono, almeno all’apparenza, strategie a
medio termine condivise dai mezzi d’informazione. L’unica cosa certa è
l’incertezza e, francamente, con le conoscenze moderne, non possiamo
permettercelo. Laddove si giochi con la vita e con la sofferenza delle
persone, vita e sofferenza che non sono da intendersi soltanto come
perdita e dolore per una certa malattia, ma anche in termini di
disagio sociale, economico e di relazioni umane profondamente
compromesse dai provvedimenti governativi, è quantomeno auspicabile
che le decisioni siano prese attraverso una consapevolezza reale della
realtà. Laddove i dati e le analisi non vengono condivisi, e la
condivisione dei dati è un’altra grande mancanza del sistema contro la
quale è in corso una vera e propria mobilitazione da parte dei
ricercatori, si diffonde la sensazione che i provvedimenti e le
restrizioni siano ingiusti e non vengano dettati dalla ragione ma
dall’arbitrarietà discrezionale di chi non sa e, soprattutto, non sa
cosa fare. Laddove i provvedimenti discrezionali non vengono
supportati dal rigore dei dati, ma dettati da un comitato tecnico
composto da personaggi più in cerca di gloria che di verità, possono
verificarsi facili strumentalizzazioni da parte delle frange
estremiste o, peggio, negazioniste. La leggerezza con cui, in questo
momento storico, si parla dei dati è pericolosissima e sta creando un
relativismo scientifico imbarazzante, che leggittima qualsiasi
interpretazioni della realtà, sminuisce il ruolo della scienza e dà
origine a fazioni contrapposte e in continuo conflitto. Lo studio dei
dati è una questione seria che richiede preparazione e serietà: non si
presta ai punti di vista personali, come può accadere per il
fuorigioco di una partita di calcio. Per descrivere la realtà locale
di un fenomeno osservabile esistono metodi e strumenti precisi: la
sovrapposizione degli stati quantistici è meglio lasciarla alla fisica.