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Chi è l’autore di Stadi di Toscana?
“Girovago come un calciatore, appassionato di stadi come un ultrà. Senza essere né l’uno né l’altro, la vita di Sandro Solinas sembra persino essere stata scritta in funzione del suo libro”. Così, molti anni fa, scriveva di me un amico giornalista e devo dire che mai descrizione fu più indovinata. Sono nato a Pisa, alla clinica di Via Manzoni proprio di fianco a Corso Italia, ma a quattro anni avevo già cambiato tre volte regione perché il mio babbo era un ufficiale dell’aeronautica, già pilota della 46a Aerobrigata scampato all’eccidio di Kindu. I legami con la Torre sono evidentemente dalla parte materna, mio bisnonno Ranieri aveva una trattoria sul Lungarno proprio all’uscita del Borghetto, suo figlio gestiva invece il garage Excelsior di Via Puccini, davanti alla stazione. La prima casa era in Via dell’Aeroporto, ma di fatto sono cresciuto alle Piagge; per questo, nel lontano 2008, feci in modo che la prima presentazione in assoluto del mio libro Stadi d’Italia venisse organizzata dal Salvini, dove da bimbo passavo tanto tempo in compagnia di mio nonno, io una spuma lui una birra (a volte, si racconta, si faceva a cambio). Pur essendomi trasferito da molti anni, passo ancora molto tempo sul litorale pisano, nel bunker di Tirrenia affacciato sul mare. Qui sono state scritte molte pagine di Stadi di Toscana. La scelta di mostrare l’Arena in copertina, tuttavia, è abbastanza casuale perché inizialmente era stata scelta una suggestiva foto in bianco e nero della tribuna aretina nel giorno della sua inaugurazione, poi scartata per le difficoltà nel rintracciare l’autore o proprietario dell’immagine.
Cosa racconta Stadi di Toscana?
Il mio lavoro di ricerca di fatto è un lungo viaggio attraverso la storia delle nostre arene sportive, un lungo percorso della memoria senza un vero principio e una vera fine. Del resto il libro si apre con le parole di Borges che ci ricordano come ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio. Sostanzialmente ho provato a raccontare ciò che non è stato raccontato, o almeno ho provato a farlo in maniera diversa. Nelle forme, ma anche nei contenuti, perché non mancano le entrate a gamba tesa in quei passaggi – per qualcuno assai scomodi – e in quelle vicende per anni nascoste o addirittura negate nei libri di scuola. Un giorno mi piacerebbe riscrivere tutto in forma diversa, quasi romanzata, un viaggio on the road tra le arene, soprattutto un cammino fatto di incontri con i tanti personaggi legati in qualche modo agli impianti. Stadi di Toscana giunge a oltre quindici anni di distanza dalla prima pubblicazione di Stadi d’Italia sorprendendo un po’ tutti, me per primo perché mai avrei pensato di ritrovarmi, a distanza di tanto tempo, a parlare e scrivere ancora di arene e spalti. D’altronde, ho sempre pensato al mio lavoro di ricerca come al punto di partenza per altri, non per me. Se il primo libro nasceva dall’idea di raccontare le vicende passate delle nostre arene, Stadi di Toscana (come già Vecchi Spalti, storie di stadi che non sono più tra noi pubblicato cinque anni fa) intende essere un omaggio alle nostre città, alla nostra gente, uno delle tante possibili narrazioni che raccontano la storia degli uomini e delle donne della nostra bellissima terra. Perché, ne sono sempre stato convinto, quella dei nostri stadi è una storia italiana, la parabola di un’eccellenza del nostro Paese, del suo genio e della sua sregolatezza. Io l’ho raccontata a modo mio, l’unico che conosco. Una storia forse segnata da errori, sprechi, degrado, eccessi e approssimazione, ma anche ricca di gloria, successo e talento. Penso soprattutto al vecchio stadio fiorentino costruito nel 1930 da Pier Luigi Nervi, mai compreso e apprezzato abbastanza. Eppure si trattò di rivoluzione allo stato puro con il suo insolito profilo asimmetrico, l’uso innovativo del cemento armato lasciato polemicamente in vista, il dinamismo delle scale elicoidali, l’audace copertura a sbalzo, l’imponente torre di Maratona che segnarono un inequivocabile punto di svolta nell’impiantistica moderna, dimostrando la possibilità di eludere gli schemi allora esistenti legati alle forme classiche ed ai materiali tradizionali. È questo, e nient’altro, che mi ha spinto a raccontare le vicende passate degli stadi di Toscana. Il desiderio dì vincere il silenzio e l’oblio calati sui tanti campi sportivi, dimenticati senza un vero perché pur essendo lo scrigno dei ricordi e delle emozioni per intere generazioni di sportivi toscani. La loro storia, la nostra storia. Un racconto che parla di noi, di un territorio e di una comunità sempre più minacciati dai signori del pallone che, colti da insano furore ideologico, da anni hanno svuotato il calcio dei suoi contenuti identitari, dei suoi rituali, della sua simbologia, dei suoi miti e di tutti quei risvolti passionali, sentimentali ed emotivi che hanno sempre fatto la fortuna secolare di questo sport nazionalpopolare: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nella sua città, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere, nella sua continuità assicurata dal passaggio di testimone, di padre in figlio, sia in campo sia sugli spalti di quelle arene che ancora oggi sono il terreno sacro dove la tribù del calcio si riunisce. Perché ogni religione ha bisogno dei suoi luoghi di culto, il calcio e il dio pallone non fanno eccezione. “Guai a quella città che non trovi posto per il tempio”, ammoniva Demostene.
Perché non amiamo i nostri stadi?
Anche per me rimane difficile comprendere come nessuno si sia mai occupato di raccontare la storia delle nostre arene sportive e mi hanno molto colpito l’indifferenza e il disinteresse, per non dire l’avversione, che ho percepito spesso durante le mie ricerche, soprattutto negli ambienti che più di altri dovrebbero invece sostenere, promuovere e valorizzare la storia e le testimonianze dell’evoluzione del calcio locale come patrimonio di conoscenza utile alla ricostruzione dei fenomeni sociali e della cultura sportiva regionale. Gli spalti vuoti e il disastroso stato dell’impiantistica sportiva – ma anche i deludenti risultati della Nazionale azzurra – sono il logico e inevitabile corollario di ciò che è diventato il sistema calcio in Italia, il naturale epilogo di un sistema autoreferenziale e autocelebrativo che – tra inchini, scarpette rosse e arcobaleni – non ha mai trovato il coraggio di affrontare un vero cambiamento culturale e tecnico di intendere il calcio, rimandando all’infinito ogni necessario avvicendamento di uomini, tecnici e dirigenti. Il calcio da gioco si è trasformato in prodotto e gli spettatori da tifosi sono diventati clienti – sempre più paganti ed esigenti – di una rappresentazione che pretestuosamente e ossessivamente continuiamo a chiamare spettacolo ma che da tempo spettacolo non è più. Potremmo parlare di squadre, anche giovanili, composte unicamente da giocatori stranieri; oppure dell’immondo mercimonio di titoli sportivi, di economiche tribune in tubi, di società che si trasferiscono in stadi e città lontani, di arroganti superleghe, di presidenti avventurieri, di una Coppa Italia brutta come la fame, di VAR, di inquietanti esposizioni debitorie, di esotiche finali disputate sotto improbabili cieli di terre distanti, di malcelate plusvalenze e di tante altre cose tristi. Tutto va verso quello sradicamento del calcio dal territorio e dalla comunità, la rimozione di ogni senso di appartenenza decisa dall’alto per arrivare a una rappresentazione solidale e inclusiva (?), retta da valori vuoti e artificiali, di ciò che un tempo è stato il giuoco più bello del mondo. E allora non sorprende che gli stadi di Siena e Viareggio siano chiusi, così come inagibili sono vasti settori degli impianti di Massa, Pistoia e Arezzo, Pisa e Livorno ironicamente accomunate dal degrado degli spalti, le beghe fiorentine, la Carrarese costretta a cercare casa. Il Lungobisenzio di fatto non esiste più. Eppure gran parte di questi impianti erano in origine eccellenti strutture, spesso all’avanguardia. Stadi di Toscana nasce da queste premesse. Certi libri devono essere scritti comunque, perché così sono alcune storie. Vanno raccontate e basta. “Il mondo è fatto per finire in un bel libro” diceva Mallarmé, perché lasciar fuori gli stadi?
Fuga dagli spalti?
Nonostante qualche incoraggiante segnale di risveglio registrato nelle ultime stagioni, i dati statistici indicano un progressivo allontanamento dei tifosi dagli stadi nostrani proprio negli anni in cui nel resto del Continente i tornei nostri concorrenti facevano invece registrare un boom di presenze dal vivo. La mancanza di investimenti in infrastrutture e servizi, l’assenza di una visione di lungo periodo e di una dirigenza in grado di comprendere tale situazione hanno comportato una gestione fallimentare degli stadi di calcio italiani che, protrattasi per anni, è divenuta – senza dubbio – una delle principali cause del vistoso calo di spettatori riscontrato in Italia nell’ultimo decennio, anche se molti addossano ancora ogni responsabilità all’overdose di calcio in televisione che ha drogato non solo i club ma anche i tifosi, vincolati sempre più al divano di casa che non alle gradinate degli spalti. Ma ci sono diversi altri fattori che hanno concorso a svuotare gli stadi, non ultimo il modesto spettacolo offerto dalle squadre sul campo e il preoccupante sradicamento delle squadre dal territorio e dalla comunità, tra titoli in vendita, disinvolti trasferimenti, società nomadi, loghi spersonalizzati e cattedrali nel deserto. E poi le difficoltà, i costi e le restrizioni per l’acquisto del biglietto. A Londra e Berlino il tifoso gode di un rispetto e di un trattamento sconosciuto alle nostre latitudini. Non è un potenziale delinquente, ma una reale risorsa.
Perché è così difficile costruire uno stadio da noi?
È un discorso complesso, legato a numerosi fattori (crisi economica, lentezza burocratica, malaffare, inadeguatezza politica), non ultima una questione culturale per cui da noi, sostanzialmente, si va allo stadio solo per vedere la partita ed a partita finita si torna a casa. Peraltro le stesse società calcistiche non hanno mai avuto una mentalità imprenditoriale e mostrano un ritardo preoccupante nella gestione diretta anche delle attività interne allo stadio, tra cui l’affitto di sale per l’organizzazione di eventi o di conferenze, la vendita diretta degli spazi pubblicitari, la gestione della ristorazione, dell’area ospitalità, dei parcheggi, dell’area commerciale, il tour dello stadio (il Barça incassa dai tour 30 milioni, la Juve 4), i palchi vip, soprattutto la sfruttamento all’estero del club (il Manchester United su tutti, ha uffici ovunque per lo sfruttamento del brand). Siamo la terra delle opere incompiute, degli stadi più vuoti e vecchi, come ci informa una recente ricerca. Siamo ancora lì a leccarci le ferite dello sciagurato Mondiale 90, per il quale – a fronte di un immane spreco pubblico – furono costruiti impianti nati già vecchi senza badare al post-evento (stadi con pista di atletica, privi di copertura e di tutti quegli elementi che sarebbero divenuti di lì a breve indispensabili se non obbligatori in termini di sicurezza e di infrastrutture per i servizi dei media). Da allora non è successo nulla, a parte gli interventi per la messa in sicurezza, a colpi di decreto e deroghe del prefetto, quasi sempre sull’onda emotiva di fatti incresciosi, come l’omicidio dell’ispettore Raciti del 2007. I luoghi che da noi ospitano le partite di pallone sono la cartolina di un Paese che sarà pur sempre nel G8 ma, quanto a infrastrutture e investimenti, ha sempre avuto una visione di breve respiro. Il quadro è desolante: l’età media degli stadi di Serie A è di oltre sessant’anni, quasi uno stadio su due fu costruito quando l’Italia era ancora un regno e non una repubblica; molti impianti hanno avuto, o hanno ancora, la pista di atletica attorno al campo – un binomio quasi mai rivelatosi una giusta scelta progettuale e gestionale -e ogni tanto capita ancora di vedere addirittura l’anello del velodromo (strutture peraltro assai interessanti, ma in ben altro contesto). Va anche detto che costruire nuovi impianti in Italia non porta granché fortuna, a Padova, Reggio Emilia, Monza, Campobasso, Ancona, San Benedetto, Trieste, Messina, Teramo e Frosinone le squadre locali si sono ritrovate ben presto a fare i conti con retrocessioni e/o fallimenti. Ma anche il recupero degli impianti comporta difficoltà, scelte e divisioni perché occorre ragionare su quanto un impianto sportivo possa essere considerato edificio di valore architettonico e testimonianza del passato di una città o di un territorio. S’innescano, spesso, dinamiche di coesistenza fra la sensibilità verso la memoria storica e le necessità e le esigenze contemporanee, e il dialogo fra la città, il club e la cittadinanza ne risente. Si parla spesso di stadio di proprietà ma credo sia un falso problema, superabile dalle lunghe concessioni che gli enti oggi possono concedere. Oltretutto non vi è sempre un legame diretto tra stadi pieni e stadi privati, spesso in Europa nella proprietà degli impianti prevalgono forme di partecipazione mista. Non esiste un modello perfetto, ogni Paese deve trovare la sua formula in base alle situazioni storiche, sociali, culturali ed economiche che lo caratterizzano. L’obiettivo dev’essere invece la realizzazione di stadi integrati nel tessuto urbano, strutture capaci di generare sinergie con il quartiere e con la città. In questo senso non c’è un’unica formula, le funzioni ad integrazione dell’arena sportiva sono varie (dal commercio alla ristorazione, dai musei alle strutture sanitarie) e dipendono dalle esigenze della zona in cui lo stadio s’inserisce. Perché solo in questo modo gli stadi possono vivere anche nei giorni senza gare in programma e per fasce orarie più lunghe. L’immagine architettonica dello stadio non deve limitarsi ai dati funzionali-costruttivi ma privilegiare una scelta che porti ad una stretta correlzione con il tessuto sociale del quartiere, con la storia urbana del territorio e della comunità, espressione del loro momento storico, sociale e culturale. Gli stadi, al pari di tanti altri luoghi ed elementi – soprattutto chiese e fabbriche – che si portano dietro la storia delle comunità che le hanno costruite e poi vissute, meritano considerazione e rispetto, non solo riguardo alla qualità architettonica e alla eventuale cifra stilistica espressa dai loro autori ma anche perché spazi di sedimentazione di vicende passate, emozioni e speranze, drammi e tragedie, espressioni di culture e senso di appartenenza.
Gli scenari futuri
Non sono fiducioso, troppe cose stanno cambiando nell’ombra. Che la Super Lega sia nata (e morta?) nell’anno della pandemia, evidentemente non è un caso: c’entrano senz’altro i debiti che crescono e i fatturati che calano, ma c’entra anche la sconcertante e inquietante prova che per qualcuno può esistere un altro calcio – più virtuale, più telvisivo, apolide e impersonale – che va oltre i luoghi e i riti che lo hanno portato fin qui, oltre quella convergenza di spazio e tempo che è lo stadio, oltre quell’unione di appartenenza e comunanza che è il tifo.
Qualche aneddoto o curiosità made in Tuscany?
Sono tanti i racconti che ho ascoltato nel mio lungo viaggio attraverso gli stadi toscani, molte le vicende curiose riportate nei mille libri consultati; tante storie che aspettavano solo di essere raccontate, alcune incredibili, altre divertenti, altre ancora probabilmente inventate di sana pianta. E poi ci sono le storie dentro ogni storia, dagli UFO nel cielo di Campo di Marte ai palloni del Candalla che scorre di fianco al Loik di Monsummano. Penso a Don Ferrero e ai suoi giovani che facevano il tifo per la Pistoiese dalle finestre del Seminario Vescovile affacciate sul campo di Monteoliveto; a Guido Cagnacci, l’energumeno custode del Velodromo Stampace, dotato di bastone ma soprattutto di un feroce e adattissimo nome di battaglia che terrorizzava i pionieri clandestini del calcio pisano. Ma anche ai campi allagati per l’alluvione del 1966, agli scheletri delle carrozze ferroviarie scaraventate sul campo aretino dalla vicina stazione; e ancora, il triste ricordo dei funerali della tragedia viareggina celebrati allo Stadio dei Pini, su quel prato che nel 1966 aveva visto oltre duemila spettatori a bordo campo durante la finale del Torneo di Carnevale tra Fiorentina e Dukla Praga; meglio pensare alla spettacolare tribuna progettata dall’ing. Carmelo Pucci a Montecatini o al suggestivo ingresso dello Stadio del Bisenzio di Signa, realizzato in guisa di antico tempio romano con quattro colonne sormontate dal timpano del frontone su cui erano impresse le iniziali dell’Opera Nazionale Balilla; o al Campo delle Ghiaie ricavato sulla suggestiva spiaggia omonima a Portoferraio. Una menzione particolare meritano anche la storia aziendale del Campo Buitoni di Sansepolcro, i seggiolini green del Mannucci di Pontedera e quelli del Magona ovviamente realizzati dalla stessa acciaieria; poi le strisce laterali tracciate sul cemento del Velodromo Stampace di Pisa, giacché il prato del campo non raggiungeva le dimensioni minime consentite; le corse dei cavalli a Piancastagnaio, Poggibonsi, Fucecchio, Montevarchi, Castelfiorentino e soprattutto a Castiglioncello, il cui concorso ippico negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta era seguito da tante celebrità in vacanza nella rinomata località balneare. Un pensiero va necessariamente anche allo stadio di Castelfiorentino, un po’ per il ricordo di Riccardo Neri e della sua tragica e inverosimile fine, un po’ per il fatto che il campo sorge su un ex-cimitero di guerra dove tanti militari furono sepolti durante il conflitto (i soldati americani da un lato, quelli italiani e tedeschi dall’altro). Curiosa la somiglianza tra le tribune di Arezzo ed Empoli, Massa e Grosseto, ma anche la difficile convivenza tra calcio e mondo ovino in Maremma; e come non ricordare la rovesciata più famosa del mondo, quella di Carlo Parola ripresa dal fotografo Corrado Banchi durante la gara Fiorentina-Juve del 15 gennaio? A fronte di un calcio moderno ormai tristemente apolide e globalizato giocato in impianti standard del tutto privi di carattere e identità, giova ricordare alcuni elementi legati al territorio e alla realtà della comunità locale, come il marmo dei gradoni dello stadio di Carrara (già alla vecchia fossa dei leoni di Via XX Settembre il rettangolo di gioco veniva delimitato con le funi utilizzate dai lizzatori per i blocchi di marmo) o i mattoni intonacati di Terranova rosso corallo che a Lucca riprende ancora il disegno delle vicine mura seicentesche. Fate un salto al Vezzosi di Orbetello, racchiuso tra le acque di una laguna senza tempo, i bastioni della fortezza spagnola che nel 1646 respinsero la flotta di Mazzarino (nei cunicoli del terrapieno vennero ricavati magazzini per i palloni e le divise da gioco) e le mura di cinta del vecchio idroscalo conosciuto per le imprese aviatorie di Italo Balbo. Meriterebbe un libro a parte.
Perché hai optato per un’autoproduzione?
Il mondo dell’editoria, un po’ come quello degli stadi, sta attraversando un processo evolutivo epocale. Cambiano i tempi e le modalità di lettura, i destinatari, i canali distributivi, le finalità di fruizione, le procedure produttive. Nonostante le molte richieste, da oltre cinque anni Stadi d’Italia non risulta più in commercio e, di fatto, per molti lettori interessati rimane inarrivabile. Le eleganti edizioni speciali, curate dal Credito Sportivo nel 2013 e nel 2017, furono riservate a soci e partner dell’istituto passando inosservate tra la tribù del calcio. Così, tra ritardi, indecisioni e l’indifferenza di cui sopra, da tempo ho deciso di fare da me, occupandomi in prima persona dell’impaginazione, della stampa, del finanziamento, della promozione, dei pagamenti, dei rapporti con i media. Un’avventura. Un’esperienza non semplice ma costruttiva, ne valeva la pena. Certe cose vanno fatte e basta, a volte. Con i suoi cinquanta capitoli e le oltre centocinquanta fotografie (molte delle quali inedite, realizzate appositamente con l’ausilio del drone) Stadi di Toscana supera le trecento pagine, un bel mattoncino (utilissimo per il tifoso anche in caso di tafferugli) per ricordarci che il calcio è di chi lo ama, come recitava un fortunato spot televisivo. Ed è vero, il giuoco più bello del mondo non ha padroni. Ha le sue leggi, le sue regole, semmai. Una delle più importanti dice che il calcio, quello vero, va vissuto sugli spalti. Andateci allo stadio, fatelo davvero. È la vostra arena. Amatela. Rispettatela. Difendetela. Bramatela.
Ringraziando per la disponibilità Sandro Solinas per questa lunga intervista, prossimamente comunicheremo le date ed i luoghi dove saranno previste le presentazioni del libro.
Coloro che vorranno ricevere una copia di Stadi di Toscana potranno scrivere a sandro.solinas@gmail.com