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Fra l’aprile e il maggio 1226 Federico II e la sua corte sono bloccati a Ravenna dalle schiere della Lega lombarda che impedisce loro di procedere verso Cremonadove doveva svolgersi una Dieta per dare inizio alla crociata promessa a papa Onorio III. Secondo la storica della lingua Roberta Cella e il paleografo Antonino Mastruzzo dell’Università di Pisa, è questa la precisa circostanza che fa da sfondo alla più antica la lirica italiana a noi pervenuta. Si tratta della canzone “Quando eu stava in le tu cathene”, di 50 versi divisi in cinque strofe più un ritornello, cantata e recitata alla corte dell’imperatore e probabilmente trascritta su una pergamena da un anonimo notabile ravennate.
La ricostruzione della vicenda, compresa quella del ritrovamento novecentesco del documento nell’Archivio storico arcivescovile di Ravenna, è al centro del volume edito da il mulino La più antica lirica italiana. “Quando eu stava in le tu cathene” (Ravenna 1226) dei due studiosi dell’Ateneo pisano.
L’attento lavoro investigativo, paleografico, filologico e storico-linguistico di Cella e Mastruzzo ha così ricollocato nello spazio e nel tempo la lirica rivoluzionando l’interpretazione del documento definita sullo scorcio del Novecento da studiosi come Alfredo Stussi, Antonio Ciaralli e Armando Petrucci.
Il primo cambiamento riguarda la datazione che si sposta in avanti di quasi 50 anni, dal 1180 circa al 1226, pur lasciando al componimento il primato di più antico che anticipa la “Rosa fresca aulentissima” della scuola siciliana di Cielo d’Alcamo. La circostanza legata alla corte all’imperatore Federico II risolve poi anche il rebus linguistico che aveva fatto supporre l’esistenza di un filone lirico settentrionale precedente o coeva a quella siciliana.
“I tratti settentrionali sono imputabili allo scrivente, ma la struttura sillabica è di solido impianto centro-meridionale – spiega Roberta Cella – sotto la patina romagnola, il vocalismo, specie se garantito dalla rima, è inequivocabilmente siciliano”.
La rilettura del documento di Cella e Mastruzzo, alla luce dell’episodio storico legato a Federico II, tocca infine anche il significato del testo, che da lirica cortese assume una connotazione politica legata alle vicende imperiali e alla contesa con i Comuni della Lega lombarda.
“Nell’affrontare questa ricerca, ci ha guidato la consapevolezza che per interpretare le testimonianze antiche, specie se così isolate, sia a volte necessario uscire dagli schemi consueti senza mai derogare ai principi di economia interpretativa e di plausibilità storica – aggiunge Cella – abbiamo sempre cercato la spiegazione più semplice, quella che da sola dà ragione di più dati (siano paleografici siano linguistici) senza forzare quanto si sa dell’assetto linguistico e degli usi scrittori medievali, della storia letteraria e della tradizione della lirica delle Origini”.
“In questo contesto ha perso anche di senso l’analisi paleografica che si muove sui classici binari dell’expertise di tipo comparativo – conclude Antonino Mastruzzo – La paleografia si è invece impegnata in un continuo dialogo con la filologia e la linguistica storica, per restituire così pienezza di significato a quel singolo e irriducibile evento di scrittura, a quella specifica performance grafica di quegli specifici scriventi che furono responsabili della messa su pergamena dei versi volgari”.