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Di seguito l’intervento, durante la cerimonia per il conferimento del XVII Premio Fibonacci al Dott. Pierfrancesco Pacini organizzata dalla Camera di Commercio di Pisa, di Innocenzo Cipolletta, Presidente Confindustria Cultura Italia, sul tema “Investire nella cultura”.
Sono particolarmente onorato e felice di essere stato scelto per fare un intervento in occasione della consegna del premio Leonardo Fibonacci a Pierfrancesco Pacini, e questo per diversi motivi.
Il primo, lo confesso, è per il legame che ho con Pierfrancesco Pacini fin dai tempi in cui ero Direttore Generale di Confindustria. Mi ha legato a Pacini una condivisione di fondo dei valori a cui far riferimento sia nella gestione delle imprese che nelle politiche per il Paese.
Ho incrociato Pacini a partire dalla metà degli anni ’80 dell’ormai secolo scorso, quando ero Direttore Generale di Confindustria e lui un esponente dell’Unione Industriali di Pisa, di cui diventerà poi Presidente. Erano, quelli, anni di forti contrapposizioni sociali nel mondo delle imprese, con scioperi improvvisi ed estenuanti trattative per la definizione dei contratti nazionali di lavoro. Poi attraversammo la stagione degli accordi sociali (gli anni della concertazione), in piena crisi economica e politica: gli anni di Mani Pulite, quando i partiti politici vennero di fatto sospesi e paralizzati dalle inchieste giudiziarie. Anni in cui le parti sociali si sostituirono, in un certo senso, alla politica assumendosi l’onere di un accordo sociale che distribuiva carichi e metteva fine alla stagione dell’inflazione galoppante. Fu grazie a quegli accordi (1992 con il Governo Amato e 1993 con il Governo Ciampi) che l’Italia superò i sistemi di indicizzazione dei salari, frenò l’inflazione, escogitò un nuovo sistema di contrattazione salariale e riuscì a partecipare sin dall’inizio all’avventura dell’euro.
Passammo così dalla stagione delle lotte a quella della ricerca di soluzioni comuni e questa era la vera natura dell’essere parti sociali. Con Pacini condividevamo l’idea che nei confronti della parte sindacale, non si trattasse tanto di vincere una battaglia, ma piuttosto di convincere i rappresentanti dei lavoratori, ossia una parte essenziale del mondo economico, verso soluzioni che fossero di interesse reciproco e, quindi, di interesse nazionale.
E per convincere non serve la forza o i colpi di scena, serve una conoscenza approfondita delle dinamiche economiche e sociali, una capacità di dimostrazione, una volontà di comprendere le esigenze dell’altra parte, una disponibilità a cambiare idea se l’altra parte è convincente, una propensione a trovare un accordo piuttosto che a esacerbare una disputa.
Tutto questo è cultura e di questo ho sempre trovato in Pierfrancesco Pacini un convinto sostenitore, pur in mezzo alle dispute e alle tensioni che caratterizzarono quegli anni. Nelle riunioni della Giunta di Confindustria a Roma o nelle assemblee annuali che si svolgevano a Pisa, ho avuto la possibilità di tessere una tela d’amicizia e di stima con Pierfrancesco e per questa ragione, oggi sono ben lieto di essere qui a testimoniarlo.
Il secondo motivo di soddisfazione è trovarmi a presenziare al premio dedicato a un matematico italiano, famoso nel mondo e che ha saputo unire speculazione scientifica e affari per larga parte della sua vita. Avendo io una formazione da statistico, resto attratto e affascinato dalle speculazioni di chi ha saputo intuire la portata conoscitiva della matematica, ha costruito una sequenza rimasta famosa, ha vissuto tra due culture che sembravano contrapporsi, in un’epoca in cui eravamo noi della sponda Nord del Mediterraneo ad importare conoscenza dalla sponda Sud, ossia dal mondo arabo.
Nel tardo Medio Evo, quando Pisa era una Repubblica che dominava i commerci marini, Leonardo Fibonacci coniugò scienza e commerci, viaggiò lungo tutto il Mediterraneo, si impadronì delle culture che allora si incrociavano. Era anche quella un’epoca di globalizzazione, pur se su scala ridotta, come ridotti, rispetto ad oggi, erano i mezzi di trasporto e di comunicazione. Ma in quel mondo, che aveva il Mediterraneo come centro e l’Asia come propaggine lontana, vigeva un principio di favore ai commerci come fattore di scambio per il miglioramento della vita dei cittadini.
Certamente gli scambi principali erano fatti di prodotti e di manufatti, ma lo scambio di idee e di culture ne era una derivata rilevante e, forse, di maggiore portata rispetto a quella relativa agli scambi di beni. Lo testimonia proprio Fibonacci che, di fatto, importò la numerazione araba in Europa, facendo fare progressi importanti nelle scienze esatte.
Sebbene ancor oggi ci sia la convinzione che il Medio Evo fosse stato una sorta di epoca buia dopo l’Impero Romano, dobbiamo invece riconoscere che esso ha rappresentato un’epoca di grandi scoperte e, malgrado non pochi eventi bellici, anche un periodo di tolleranza e di forti aperture culturali che poi hanno consentito l’avvio dell’epoca che abbiamo chiamato del Rinascimento.
Che la pace e i commerci liberi siano portatori di progresso e di benessere è opinione diffusa e data quasi per scontata, ma si tende a dimenticarla a fronte di eventi e difficoltà transitori: ed è quello che stiamo facendo anche noi proprio in questi giorni. La stagione della globalizzazione che abbiamo alle spalle è spesso accusata di aver generato tanti guai e assistiamo senza troppo reagire al ritorno di nazionalismi mascherati di patriottismo, di tensioni internazionali tra blocchi di potere, di accuse di intromissione negli affari nazionali, di difesa di immaginari interessi nazionali, di blocchi e sanzioni commerciali e finanziarie, di denigrazioni e accuse ideologiche.
Eppure, la stagione della globalizzazione ha profittato sia al mondo industriale che ha trovato nuovi sbocchi commerciali e nuove spinte creative, che ai paesi in via di sviluppo dove si è assistito alla crescita del reddito e all’uscita dalla povertà di miliardi di persone, al punto che l’ONU stesso ha riconosciuto come la battaglia contro la povertà avesse avuto risultati superiori agli obiettivi ambiziosi che erano stati posti anni addietro.
E, se è vero che in molti paesi è cresciuta la diseguaglianza come spesso avviene in presenza di forti innovazioni tecnologiche, è anche vero che sono diminuite di molto le diseguaglianze tra i paesi del mondo. Inoltre, l’aumento delle diseguaglianze è avvenuto per la crescita eccessiva degli alti redditi di alcune persone, non per l’arretramento del reddito di altre persone, posto che complessivamente, il reddito è cresciuto ovunque: una situazione questa più agevole da gestire rispetto a quando è la povertà a diffondersi generando miseria.
C’è da augurarsi che si torni a considerare la globalizzazione per quello che è: un’apertura dei mercati per favorire gli scambi di merci e di conoscenze, magari affrontando quelle distorsioni che possono generare disagi per evitare quelle crisi che sono sorte durante la globalizzazione per errori o per assenza di strumenti di governo della globalizzazione stessa.
Abbiamo già vissuto tre crisi “epocali” negli ultimi 20 anni: la crisi del terrorismo del 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle di New York e agli altri bersagli; poi la crisi finanziaria globale del 2008 protrattasi fino al 2013 e quindi la crisi pandemica iniziata nel 2020 ed ancora oggi tragicamente qui da noi.
È indubbio che queste tre crisi abbiano trovato nella globalizzazione il veicolo per diffondersi nel mondo. Ma è anche vero che esse sono state il prodotto di errori e soprattutto di un’assenza di governo della globalizzazione, ossia di una modalità per intervenire su problemi che hanno carattere mondiale e non possono trovare soluzioni nazionali.
Le tre crisi ci hanno fatto perdere molti dei vantaggi conseguiti con la globalizzazione e solo adesso stiamo ritornando sui livelli di reddito che abbiamo conosciuto prima della crisi pandemica. Ma la strada per uscirne non può che essere la collaborazione internazionale.
L’Europa lo ha capito ed ha varato un piano, il Next Generation European Union, che prevede proprio uno sforzo comune fatto di risorse europee e di debito europeo da distribuire tra i paesi per rendere le nostre economie più forti e resistenti. È la strada corretta, perché è molto probabile che nei prossimi anni ci troveremo a confrontarci con qualche altra crisi e non c’è altra soluzione che quella di rafforzare la nostra capacità di resistenza. Noi non possiamo sapere né quando ci sarà una prossima crisi né che tipo di crisi sarà. Ma dobbiamo agire come a fronte dei terremoti, imprevedibili ma dai quali possiamo difenderci solo se doteremo i nostri edifici di sistemi antisismici, capaci di evitare i crolli disastrosi. E le tecnologie per raggiungere questo obiettivo sono a nostra disposizione.
Lo stesso vale per le nostre economie. Noi non possiamo sapere quale e quando sarà la prossima crisi. Ma sappiamo che, se avremo strutture economiche forti, sistemi di protezione civile e sociale efficienti, una qualche capacità di governo mondiale e se avremo popolazioni istruite e preparate, allora potremo resistere alle crisi e superarle agevolmente. Questo significa essere resilienti ed è questo l’obiettivo che il PNRR italiano si prefigge.
L’Italia ha avviato il suo programma di resilienza ed è importante che lo porti a termine. Intanto l’economia sta reagendo bene e la ripresa è sufficientemente robusta. Certo, esistono vecchi e nuovi problemi. Un sistema di governo poco efficiente, un debito pubblico troppo elevato, rischi di inflazione che tornano, strozzature nella disponibilità di materie prime e di lavoro. Ma questi sono problemi risolvibili se resta chiaro l’impegno a migliorare la struttura del nostro Paese ed io sono fiducioso che questo avvenga.
Il terzo motivo per cui sono contento di essere qui oggi è perché la matematica sta tornando ad essere rilevante per le nostre vite e per l’economia, coinvolte nella rivoluzione digitale che è fatta di algoritmi e di funzioni matematiche. Per chi come me ha una preparazione da statistico ed ha lavorato tutta la vita basandosi sui dati, è sicuramente un motivo di soddisfazione.
Allora come oggi, la matematica è la grande protagonista del progresso tecnico che ci riguarda. Viviamo l’epoca della “transizione digitale”, dove i numeri sono la base di tutta la nostra vita. Siamo aiutati e condizionati nelle nostre scelte e nelle nostre azioni da una miriade di algoritmi che disegnano il nostro cammino, che anticipano le nostre scelte, che ci consentono di ampliare le nostre conoscenze, che ci fanno fare “da remoto” cose e attività che mai avremmo potuto immaginare di poter realizzare senza doverci muovere e senza fatica e impegno fisico.
Gran parte di questo progresso tecnico lo si deve alla matematica, all’esplosione della capacità di calcolo, alla possibilità di gestione di una massa infinita di dati, mentre la potenza di calcolo continua a crescere ed oggi parliamo con tranquillità di essere arrivati all’era dell’Intelligenza Artificiale, che ci porterà a svolgere con semplicità funzioni complesse e ci permetterà di avanzare nella ricerca verso una innovazione tecnologica continua.
Non che tutto questo sia senza rischi. Sappiamo bene della necessità di gestire gli algoritmi senza mai perdere la nostra capacità di intervento e di giudizio. Che si tratti di assegnare un lavoro alle persone, come avviene giornalmente a lavoratori precari che consegnano le merci su incarichi gestiti da un algoritmo, che si tratti di riconoscimenti effettuati con strumenti di immagine facciale nelle inchieste giudiziarie, che si tratti di diagnosi mediche fatte con la telemedicina o di mille altri interventi automatici, è bene sottolineare che deve rimanere sempre presente e partecipe la responsabilità di chi utilizza questi strumenti per evitare che il cittadino rimanga ostaggio di algoritmi inappellabili, costruiti per scopi specifici sulla base di dati comunque imperfetti.
Ma non si può non rimanere incantati dalla potenza dei calcoli e dalla rilevanza che la matematica sta assumendo in questa era di forte progresso tecnologico. E, se temiamo degli eccessi dell’uso della matematica nelle nostre vite, quello che dobbiamo fare non è certamente quello di frenare tale uso. Si tratta invece di approfondire e sviluppare con altrettanto impegno tutte le altre discipline e in particolare quelle letterarie che rappresentano il complemento all’approccio scientifico e consentono veramente di progredire a tutta la società.
Faccio mia la dichiarazione di Edgar Morin in una recente intervista a un quotidiano nazionale: “Gli economisti, che parlano di calcoli, non si rendono conto che i calcoli non sono sufficienti per comprendere tutti i problemi umani. Il calcolo è uno strumento ausiliario necessario, come le statistiche, i sondaggi e tutto il resto. Ma il punto è che sono tutti strumenti ausiliari di un pensiero (oggi) assente o inserito in una serie di dogmi come i dogmi del neoliberismo.”
In altre parole, si tratta di far crescere contemporaneamente tutte le forme di cultura per avere una maggiore capacità di sfruttare i progressi delle nuove tecnologie. Poiché questa pandemia ha colpito proprio il mondo della cultura – privato in larga misura della possibilità di operare in presenza a causa dei timori di contagio – appare necessario che l’Italia investa consistentemente nella cultura per far sopravvivere le molte strutture produttive culturali che, per loro natura, sono fragili.
Dobbiamo investire di più nella cultura a cominciare dall’investimento nell’istruzione. La pandemia ha colpito il mondo dell’istruzione che ha reagito con generosità da parte degli addetti, ma che si è rivelato impreparato a sfruttare i nuovi metodi di didattica resi possibili dalle tecnologie digitali. Certamente, tutti preferiamo la didattica in presenza, ma un buon investimento in formazione e mezzi tecnici potrebbero far fare un salto di qualità al nostro sistema dell’istruzione. Credo si necessario cogliere l’occasione di questa pandemia per attrezzarsi a meglio utilizzare le tecnologie, non già per sostituire i sistemi attuali d’insegnamento, ma per integrarli con nuovi strumenti.
E dobbiamo sostenere il mondo delle attività culturali che hanno pagato un tributo elevato in questi anni. L’impossibilità di produrre concerti, spettacoli, eventi, esposizioni e le molte altre attività che sono alla base della produzione di cultura, ha impoverito il settore che rischia un forte ridimensionamento.
Ciò appare tanto più importante perché gli italiani hanno mostrato di apprezzare la cultura anche e soprattutto in questa fase di crisi. Con la pandemia è aumentato il numero e l’intensità dei lettori di libri, è cresciuto il consumo di musica e di spettacoli trasmessi per via elettronica, sono stati escogitati sistemi per produrre cultura senza implicare la presenza delle persone. Tutti elementi che testimoniano di una domanda e di una necessità che rischia di non essere soddisfatta se dopo la pandemia ci troveremo con un settore della cultura depotenziato dal calo dei redditi e del lavoro che ha caratterizzato il 2020 e gran parte del 2021.
È necessario combinare al meglio questa voglia di cultura con il sostegno a chi la produce, in modo da superare questa fase di pandemia, per riprendere il percorso di crescita che il Paese merita.
Investire in cultura è, ancora e sempre, il vero traino delle nostre vite, la sola via che ci può far crescere e progredire, che ci può portare fuori dalle secche di questa pandemia, che ci darà le chiavi per generare un mondo pacifico e sostenibile.
Mi auguro che anche questa cerimonia di conferimento di un riconoscimento ad un uomo di cultura, come Pierfrancesco Pacini, possa rappresentare uno stimolo in più per sostenere il mondo della cultura nel nostro Paese.