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Potrebbe essere Dante Alighieri una delle figure rappresentate negli affreschi che Buffalmacco dipinse tra il 1336 e il 1342 sulle pareti nel Camposanto di Pisa. È l’ipotesi che Giulia Ammannati, professoressa di Paleografia alla Scuola Normale, avanza in un articolo in corso di stampa sugli Annali della Scuola Normale, di cui ha parlato Salvatore Settis sul Sole 24 Ore di ieri. Nella sezione del Giudizio Universale degli affreschi, solerti arcangeli spingono all’inferno una folla di reietti, in cui spicca un uomo vestito di rosso e assai somigliante al ritratto giottesco di Dante al Bargello (ante 1337). Perché Buffalmacco avrebbe fatto precipitare all’inferno proprio Dante?
Ammannati nel suo studio non si basa solo su somiglianze fisionomiche, ma riconduce questa ipotesi al contesto storico-politico dell’epoca, e all’aspro contrasto che opponeva Papato e Impero. L’arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli, stretto collaboratore di papa Giovanni XXII, si era dovuto rifugiare ad Avignone presso il Pontefice negli anni (1327-29) in cui Pisa fu occupata da Ludovico il Bavaro, che vi insediò anche un proprio antipapa (Niccolò V). In quelle vicende i filoimperiali avevano tratto succosi argomenti da un’opera di Dante, il De Monarchia, presto condannata al rogo dagli emissari del Papa avignonese. Ecco che il Dante teorico dell’Impero può essere stato stigmatizzato negli affreschi di Buffalmacco, nella cui ispirazione i domenicani pisani e lo stesso arcivescovo ebbero un ruolo fondamentale. Il personaggio barbuto accanto a lui potrebbe allora essere Virgilio, messo al bando forse anche per la sua fama medievale di mago, accusa che peraltro colpì lo stesso Dante negli ultimi anni della sua vita.
Ma cosa sapevano i pisani dell’aspetto di Dante quando Buffalmacco dipingeva in Camposanto? Saltarelli e Buffalmacco erano fiorentini e potevano aver visto il ritratto di Dante al Bargello, ma Ammannati adduce anche la plausibile ipotesi, dovuta a Marco Santagata, che Dante avesse soggiornato a lungo a Pisa negli anni di Arrigo VII (1312-13), componendovi larghe parti proprio del De Monarchia. La predicazione dei domenicani e la tradizione orale di commento ai dipinti avrebbero fatto il resto, rendendo riconoscibile ai contemporanei l’exemplum del reprobo Dante.