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Parrotto (Aidr), “Ma dopo la pandemia, il lavoro sarà davvero agile?”

Lo abbiamo pensato in tanti. Serviva una pandemia, con i suoi morti, e
tutto il resto.
Se ne parlava da almeno trenta anni. Da quando furono sviluppate le
prime pionieristiche iniziative di Telecom Italia, di IBM e di alcune
altre aziende, disponibili ad esplorare e ad innovare, aiutate da
alcuni studiosi di scienze sociali e organizzative: penso al compianto
Patrizio Di Nicola, allievo di Aris Accornero, penso a Domenico De
Masi, che da anni pungola e sferza con le sue analisi illuminate i
decisori e i manager del nostro mondo del lavoro.
Da allora, nei convegni, nelle aule universitarie, nei dibattiti
televisivi e nelle contrattazioni collettive, si è parlato tanto di
telelavoro domiciliare, di lavoro mobile, di lavoro agile. Ma il tema,
in Italia, non ha mai attecchito per davvero e in modo pervasivo. Le
cause? Tante e tutte legate soprattutto alla fragilità della cultura
imprenditoriale e manageriale in Italia. Perché la resistenza al
cambiamento non è legata al censo organizzativo. Anzi, molto più
spesso di quanto si immagini, chi teme o rifiuta o rimanda un
cambiamento è proprio chi ha il potere, chi è consapevole che
modificare un equilibrio significa rischiare, doversi mettere in
discussione, dare spazio anche ad altro, e forse ad altri. La storia
del telelavoro prima, e dello smart working poi, in Italia, è uno
spaccato dei tanti luoghi comuni, delle piccole e grandi ipocrisie,
delle piccole e grandi amnesie che hanno influenzato spesso le
decisioni, condizionando per conseguenza le mode, i comportamenti e le
scelte della gente.
Serviva una pandemia, con la sua drammatica e indimenticabile eredità,
per far toccare con mano anche ai più integralisti che le soluzioni
organizzative possono essere tante, e che le persone, le risorse
umane, sono risorse e per di più umane; che hanno riserve di capacità
di adattamento assolutamente non utilizzate, e che le prassi e le
procedure devono essere strumenti utili, non alibi o vincoli.
Serviva il lockdown, per “scoprire” di colpo che gli obiettivi debbono
essere chiari, che è importante interessarsi per davvero a cosa fanno
i collaboratori, che chi lavora vuole capire e condividere le
strategie, sentirsi parte di un obiettivo, di uno scopo. Che è bello e
utile sentirsi e vedersi spesso, anche solo per chiedersi “come va?”.
Serviva un cambio di prospettiva, per riapprezzare il valore del tempo
libero, il piacere di poter abbracciare un amico, l’importanza di
visitare un museo o una piazza, il gusto di andare a teatro, di andare
al mare, di offrire un po’ di tempo a chi sta male, a chi non ha
alternative. E per capire che tutto questo rende le persone più
serene, più equilibrate, più attente, più curiose, più resilienti, più
orientate a risolvere i problemi.

Ma siamo tutti adulti (e speriamo presto anche vaccinati) per non
ammettere che non è stata una scelta studiata, voluta, cercata,
regolamentata. Non c’è stato il tempo. Si doveva fare tutto in pochi
giorni. E in pochi giorni milioni di persone hanno iniziato a lavorare
da casa, lontano dal luogo tradizionale. Molti si sono stupiti, perché
le persone si sono abituate subito, come accade sempre in ogni
cambiamento anche se non voluto. Ma sono emerse criticità,
contraddizioni, incoerenze, di cui sicuramente sarà bene tenere conto,
se non si vorrà perdere una grande opportunità.
Innanzitutto, il nostro sistema di lavoro, non solo quello della
pubblica amministrazione, è ancora troppo basato sulla cultura del
compito e non del risultato. Qualche passo avanti si è fatto, ma siamo
indietro. Lavorare da remoto ha ovviamente acceso un po’ di enfasi
sull’importanza delle competenze, del saper fare, del saper risolvere,
ma il potere manageriale non illuminato incombe minacciosamente. E
qui, le aziende che sono più avanti, i sistemi imprenditoriali più
attrezzati dovranno e potranno fare cultura. Finiranno per promuovere
e favorire una rivoluzione che potrà portare benefici a tutti.
Ma vi è anche un altro aspetto che coinvolge le persone, da osservare
con attenzione e semplicità: le nostre case non sono state pensate per
essere luoghi di lavoro. Almeno nella gran parte dei casi, le persone
non hanno spazi sufficienti per concentrarsi, e per lavorare bene. Far
coincidere il luogo di lavoro con il luogo del riposo, dello svago,
degli affetti, degli incontri amicali, non è giusto, non è bello e,
come iniziano a dirci i medici del lavoro, non è neanche sano. Non lo
è per chi lavora, e in particolare per le donne, chiamate di solito
anche ad attività di cura e di assistenza familiare, in misura ancora
sproporzionata rispetto agli uomini. Alla lunga, anche le imprese
troveranno utile un nuovo equilibrio: si realizzeranno hub, spazi
condivisi, luoghi ricchi di servizi, dove incontrarsi e condividere
informazioni, progetti, partnership. Gli uffici tradizionali saranno
ovviamente ripensati. E il tema dell’orario di lavoro, uno dei più
dibattuti negli ultimi decenni, perderà la sua morbosa e spesso
ingiustificata centralità. Il lavoro da remoto, per essere smart,
dovrà sempre di più diventare una scelta, dell’organizzazione e della
persona. E dovrà essere flessibile, conveniente, efficace e poggiare
su sistemi tecnologici sempre più avanzati, ma anche e soprattutto su
sistemi di fiducia, verificabili e sempre migliorabili. Sarà tutto più
articolato, complesso, fluido. Governare tutto questo richiederà una
grande apertura mentale, e una visione trasparente. Mettere al centro
le persone non potrà più essere solo un format, uno slogan vuoto e
usato a piacere. Sarà una scelta, inevitabile e straordinariamente
conveniente.

E allora, può essere utile chiedersi: quale sarà il giusto equilibrio,
una volta passata la pandemia? O ancora meglio, quale progressione
andrà introdotta, atteso il fatto che il ritorno alla auspicata e
cosiddetta “normalità” sarà inesorabilmente graduale? Quali sono i
rischi già presenti e quelli futuri? Per quanto tempo si può convivere
con una emergenza? Che aiuto possono dare le tecnologie? Quali limiti
è giusto introdurre? Quale formazione è opportuno mettere a
disposizione dei capi e dei professionisti che lavoreranno da casa
ancora per molti mesi? Quali competenze vanno rafforzate? Quali
indicazioni, quali suggerimenti, quali accorgimenti sarà importante
mettere in atto per evitare che una grande opportunità come questa
rischi di trasformarsi in un boomerang, in un fallimento?

Di sicuro non basterà “fare due giorni a casa e tre in ufficio”.
Significherebbe banalizzare i problemi e le opportunità.

Non stiamo parlando di una semplice novità. Stiamo parlando di un
grande cambiamento. Probabilmente epocale. Vanno ripensati i modi di
lavorare. Non solo i luoghi. Ma anche quelli. Vanno ripensati i
sistemi di mobilità, i luoghi di incontro, i tempi e i modi del lavoro
sempre più integrati con i tempi per il riposo e per la cultura. Vanno
sfruttate, ma anche governate, le straordinarie opportunità che offre
l’innovazione digitale. I sistemi Paese, i sistemi industriali, i
sistemi organizzativi, i sistemi di rappresentanza sindacale, i
sistemi formativi saranno tutti coinvolti da questo cambiamento.
Serviranno risposte diversificate: perché le necessità e i problemi
sono complessi.
E intorno ad un tavolo virtuale, immaginario, devono sedere esperti e
decisori: innovatori, sociologi, psicologi, architetti, medici,
ingegneri, manager, sindacalisti. Giovani e persone con esperienza. Se
si vorrà cogliere questa opportunità, se si vorrà uscire prima e
meglio da questa incredibile e delicata situazione, se si vorrà
onorare la morte di tante persone, allora l’umiltà e la creatività
delle donne e degli uomini dovranno fare la differenza. Serviranno
osservatori, fabbriche di idee e di progetti, laboratori, centri studi
ed hub di pensiero applicato.
Sicuramente, serviranno tanti cuori intelligenti, con storie,
competenze e sensibilità diverse, ma tutti mossi dalla voglia di
alzare lo sguardo e lasciare un segno bello nella storia dell’umanità.